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  1. °Albus Severus°
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    Quando finirà la mia storia, inizierà la mia leggenda!

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    Ragnar Crossnight

    Studente - Grifondoro - 11 Anni
    L’estate era ormai iniziata da un pezzo. I giorni si erano accavallati inesorabili, lasciando Ragnar completamente spaesato e confuso. Ormai non ricordava più quanto tempo fosse passato dalla fine della scuola; giorni, settimane mesi o forse anni. Delle volte si ritrovava a pensare che tutto quello che aveva vissuto, la magia, Hogwarts e gli amici, non fossero altro che un sogno. Che fosse semplicemente uscito pazzo immaginandosi ogni cosa. Ed era proprio in quei momenti che le sue mani andavano alla ricerca spasmodica della bacchetta, stringendosi a pugno intorno ad essa. Quel bastoncino di legno nero, era la prova tangibile e immediata della sua sanità mentale. Attraverso lei, riusciva per un attimo a sentirsi a casa, ad Hogwarts.
    Da quando aveva rimesso piede in quel sudicio e lercio posto in cui era cresciuto, la monotonia era ritornata sovrana a riempire le sue giornate. L’orfanotrofio non era cambiato più di tanto da come l’aveva lasciato. Adele, la direttrice, era sempre la stessa, forse con qualche ruga in più a riempire il suo pallido volto, ma lo sguardo era sempre quello: freddo e distaccato, glaciale e affilato. Era lo sguardo che aveva imparato ad ignorare, lo stesso sguardo che l’aveva accolto la prima volta che il portone in legno di quel luogo si era spalancato davanti a lui. La robaccia che chiamavano cibo, a Ragnar era sembrata peggio di quanto ricordasse. Evidentemente la strepitosa cucina degli elfi aveva viziato il suo palato al tal punto che la mensa dell’orfanotrofio in confronto sembrava spazzatura.
    Aveva notato dei visi nuovi. Non era ben sicuro se fossero nuovi arrivati o semplicemente ragazzini che erano cresciuti o che non aveva mai calcolato più di tanto.
    I primi giorni successivi al suo ritorno, passarono come al solito. Se ne stava chiuso nella sua stanza ad ascoltare musica, a leggere oppure a messaggiare con qualche suo compagno di Hogwarts. Sì, si era comprato un telefono, uno di quelli all’ultimo grido, così tecnologico che se chiedevi un caffè te lo preparava in quattro e quattr’otto. Molte volte si rifugiava nel suo angolino personale, ovvero le fronde del grande salice che si trovava nel cortile. Nel rivederlo dopo quasi un anno, gli sembrò che fosse cresciuto ancora.
    Poi, quella solitaria e monotona routine, venne interrotto da un evento che non si sarebbe mai aspettato. In sette anni che aveva vissuto in quel luogo, non gli era mai capitato di vivere niente del genere.
    Era comparso un ragazzino, che lui non aveva mai visto prima. Era più grande del grifondoro di due anni e tutti lo chiamavano Bigpig, molto probabilmente per l’enorme naso da maiale che si trovava stampato sulla faccia e alla risata che assomigliava molto al grugnito di un enorme maiale. Ovviamente veniva chiamato con quel nomignolo solamente in sua assenza. Nessuno era abbastanza coraggioso da digli in faccia che era più simile ad un grasso maiale rosa che non ad una persona.
    Bigpig aveva iniziato a diffondere il panico tra i più piccoli. Tutti erano spaventati da lui per i suoi modi bruschi e da bullo. Dicevano che era un tipo abbastanza solitario, ma che ogni occasione la sfruttava per prendersela con qualcuno e picchiarlo.
    Dal canto suo, Ragnar non l’aveva mai visto in azione e tutto ciò che sapeva, l’aveva udito dai discorsi fatti dai ragazzini per i corridoi. Le poche volte che l’aveva incrociato erano state a mensa e di sfuggita in cortile. Non che gli interessasse più di tanto. Al contrario della maggior parte delle persone, la presenza del giovane gli era del tutto indifferente, non gli faceva né caldo né freddo. Beh, questo prima di quel giorno.
    Era appollaiato sul suo amato albero, intento a leggere un libro molto bello. Mancavano davvero pochissime pagine e la curiosità di sapere come sarebbe andato a finire lo tenevano incollato a quelle sottili lettere nere. Però, oltre alla sua voglia di andare avanti, c’era qualcos’altro che stava crescendo sempre più d’intensità, ed era la voce minacciosa di un ragazzo che cozzava con quella sottile e impaurita di un altro. Chiuse il libro stizzito e riponendolo nella borsa a tracolla, scese dall’albero per capire cosa stava succedendo.
    Bigpig aveva trovato un’altra vittima. Un ragazzino la metà di lui e molto probabilmente anche più piccolo di diversi anni. Se la stava prendendo con lui per qualcosa che il grifondoro non riusciva a capire, ma la motivazione non gli interessava. Si sentiva il sangue ribollire nelle vene. Non solo aveva interrotto la sua lettura, ma come solo i codardi sanno fare, stava attaccando briga con un bambino impaurito e indifeso. La goccia che fecce traboccare il vaso, fu quando il bambino perse l’equilibrio in seguito ad una spinta di faccia di maiale. Serrò i pugni e lanciando la tracolla a terra, si avvicinò di qualche metro nella sua direzione.
    «Ehi, Bigpig!» gridò. «Sì, dico proprio a te!» aggiunse in risposta alla faccia interrogativa del ragazzino. «Non dirmi che ti sei scordato anche il tuo vero nome ora?» lo canzonò con il chiaro scopo di farlo infuriare.
    «Invece di prendertela con i più deboli, prenditela con me!»
    Cercò di attirare la sua attenzione. Quando vide di esserci riuscito, si rivolse al ragazzino a terra.
    «Presto, vai via di qui!»
    Senza farselo ripetere due volte, come un grillo il bambino saltò all’impiedi, lasciando il cortile a tutta velocità.
    «Ehi tu, dove credi di andare» gli gridò dietro Bigpig.
    «Senti, ho sentito parlare di te. Tutti i ragazzini parlano di te. Non ho ben capito perché ti comporti così e con quale coraggio te la prendi con i più piccoli e deboli, ma falla finita. Ora se non ti dispiace, c’è un libro che aspetta di essere finito» disse raccogliendo la tracolla da terra.
    Diede le spalle al bulletto e con tranquillità fece per lasciare il cortile, dritto nella sua stanza. Non aveva voglia di litigare e soprattutto non ne valeva la pena con un tipo come quello.
    Poi, fu una frazione di secondo. Si ritrovò a rotolare sul pavimento avvinghiato al ciccione, che aveva effettuato una sorta di placcaggio ai suoi danni. Ora era con le spalle a terra e Bigpig sopra di lui. Gli arrivò un pugno in faccia. ”Ferro” pensò, quando il sapore di sangue riempì la sua bocca. Reagì istintivamente, più per autodifesa che per fare del male. Diede una capocciata sul naso del ragazzo e sfruttando il momento di esitazione, prese l’iniziativa. Ora era lui che aveva messo spalle a terrà il bullo. Iniziò a sferrare una serie di pugni, preso dalla rabbia e dalla foga. Ogni volta che la sua mano incontrava la faccia del ragazzino, sentiva un peso in meno che lasciava il suo corpo. Non sapeva più perché stava agendo. Non era più solo per fargliela pagare, ma era qualcosa di più profondo. Come se stesse sfogando tutti i suoi problemi e le sue paure su di lui, senza riuscirsi più a controllare. Poi una presa forte gli bloccò le braccia, tirandolo su. Gridò in preda alla rabia. Il ragazzino aveva la faccia ricoperta di sangue; le nocche di Ragnar erano ricoperte di sangue, il sangue di Bigpig e non il suo.
    Il susseguirsi degli eventi fu concitato e confuso. Si ritrovò nello studio di Adele, la direttrice. Non poteva sopportare il suo sguardo. Non riusciva a sostenere il modo in cui lo guardava. Sempre con quell’espressione severe e distante, velata da un misto di pietà per la sua situazione. Non l’aveva mai sopportata e mai l’avrebbe fatto.
    Ovviamente non lo sgridò, si limitò a guardarlo in silenzio, come faceva sempre e poi semplicemente lo congedò con un gesto. La odiava. Quel suo modo di fare lo faceva infuriare. In sette anni, non gli aveva mai rivolto più di due parole di seguito, non l’aveva mai sgridato come faceva con gli altri ragazzini, tutto questo perché aveva pietà di lui, solo perché aveva pietà di quello stupido e sfortunato ragazzino senza genitori.
    Aveva saputo da Beth, che il giorno dopo ci sarebbe stato un campo estivo in Danimarca. Mentre saliva le scale, diretto nella sua stanza, il suo cervello aveva già elaborato ogni cosa.
    Buttò la valigia sul letto e acciuffando quelle poche cose che aveva, la riempì. Durante la notte sarebbe partito. Avrebbe lasciato l’orfanotrofio di nascosto e con il nottetempo sarebbe arrivato al porto, dove si sarebbe dovuto incontrare con Ray e Leo.

    Poi l’ora giunse. Incrociò la sagoma del suo viso riflessa nello specchio. Un livido gli era comparso sulla guancia, poco sotto l’occhio, dove il pungo del grassone l’avevo colpito. Scuotendo la testa si vestì, controllò che la bacchetta fosse riposta nella tasca posteriore dei suoi bermuda e con un capello in testa e la borsa in spalla, sgattaiolò fuori dalla finestra, giù per un tettuccio, sul marciapiede. Ragnar aveva sviluppato una certa abilità nell’arrampicarsi. Questo grazie alla pratica che ogni giorno faceva per nascondersi tra le fronde dei grandi alberi che incontrava sul suo cammino.
    Avanzò verso la strada e dopo aver lanciato un ultimo sguardo alle sue spalle, in direzione dell’orfanotrofio, puntò la bacchetta in avanti. La rinfoderò, nel momento in cui il rumore di ruote che si bloccano sull’asfalto colpì il suo udito e un pullman color melanzana entrò nel suo campo visivo. Salì con lo zaino in spalla e riferita la destinazione, prese posto come al solito di fianco al finestrino. Puntò lo sguardo fuori l’abitacolo e si lasciò incantare dai paesaggi e dalle città che comparivano e svanivano alla velocità della luce.
    Si sarebbe dovuto incontrare con i suoi compagni intorno alle dieci. Aveva lasciato l’orfanotrofio poco prima del sorgere del sole. Molto probabilmente, sarebbe arrivato al porto con un oretta di anticipo, ma poco importava. La consa essenziale era di aver finalmente lasciato quel tugurio, non ci avrebbe più rimesso piede, almeno non quell’estate.

    «Grazie Ernie, alla prossima!» salutò una volta arrivato a destinazione.
    Il caldo sole estivo splendeva nel cielo. I gabbiani volavano allegri intorno al porto, buttandosi ogni tanto in direzione del mare per poi ritornare in cielo con una nuova preda a portata di zampa. L’asfalto che tappezzava il luogo, era diventato incandescente sotto i caldi raggi. Fortunatamente il cappello che si era messo in testa evitava che si prendesse un insolazione. La camicia di lino bianca lo teneva abbastanza fresco e i bermuda lo facevano respirare.
    Si palpò leggermente il livido che aveva sullo zigomo destro. ”Ahia!” sussurrò. ”Che diavolo, quel maledetto maiale!”
    Guardò l’ora. ”Nove meno venti.”
    Mancava più di un’ora all’arrivo dei compagni. Si guardò intorno alla ricerca di un posticino all’ombra dove potersi sdraiare un po’. Non aveva chiuso occhio quella notte, troppo concentrato ad organizzarsi per scappare dall’orfanotrofio e troppo arrabbiato ed inquieto per prendere sonno.
    Poi lo vide, il posto ideale. C’era una casupola, molto probabilmente una piccola rimessa per le barche, dietro di esse, vi era un posticino appartato quanto bastava e riparato dall’ombra dello stesso edificio.
    Si sedette, appoggiando la schiena alla struttura in legno bianco. Fu proprio in quella posizione, con la testa abbassata e il cappello a coprirgli il viso, che si addormentò.
    “Drinn-Drinn” il cellulare suonava nella sua tasca.
    Fu proprio quel suono a destarlo leggermente dal profondo sonno in cui era caduto.
    ”Ma che…” pensò.
    Si alzò leggermente il cappello dal viso, quando i suoi occhi videro le gambe di qualcuno che stava fermo di fianco a lui. Seguì la sagoma con lo sguardo, fin su alla faccia. «Leo?!» gridò stupito.
    «Cavolo ma sei proprio tu! Aiutami ad alzarmi» disse tendendogli una mano.
    Era ancora visibilmente assonnato e gli occhi non erano del tutto vispi e arzilli, al contrario erano ridotti a due fessure. Gli passò un braccio intorno alle spalle, con un sorriso a trentadue denti che gli disegnava il viso.
    «Mio dio, ma quanto sei cresciuto?» constatò accigliato mettendosi di fronte a lui, per squadrarlo meglio. «Ad ogni modo, come stai? Hai passato bene questo mese di luglio?» chiese raccogliendo lo borsa da terra, per poi incamminarsi verso il punto d’incontro.
    «Questo dici?» indicando il livido che aveva in faccia. «Niente di che, una piccola lite, ma dovresti vedere l’altro com’era ridotto!» disse gagliardo.
    Erano fermi ad ammirare le creature che trainavano le navette e di tanto in tanto si lasciavano andare a commenti stupiti su quanti sodi quei principi avessero dovuto avere per organizzare una cosa del genere.
    Poi la sua attenzione venne attirata da una voce che li chiamava. ”Ray!” pensò subito.
    Si girò nella sua direzione, con un sorriso sul volto. Solo ora si rendeva conto di quanto gli erano mancati i suoi amici. Forse troppo occupato a sopravvivere all’orfanotrofio, non aveva avuto tempo di soffermarsi su quello che veramente provava. Ma ora, che li vedeva entrambi li, capiva che avrebbe voluto restare per sempre con loro, a ridere scherzare e divertirsi. C’era moltissima altra gente che da lì a poco avrebbe rivisto e a cui voleva bene.
    Abbracciò Rassell con forza. Poi li guardò entrambi.
    «Incredibile ragazzi, ma che cavolo avete mangiato per crescere così tanto?» disse scoppiando a ridere.
    Erano diventati più alti, e lui che non li vedeva da un po’ di tempo, lo notò subito. Molto probabilmente anche perché passava la maggior parte del suo tempo ad osservare la gente e quindi non gli veniva troppo difficile notare particolari del genere.

    Senza perdere altro tempo, salirono su una navetta e dopo pochi minuti sbarcarono sull’isola. Ad attenderli vi erano i due principi in carne ed ossa, che salutò con un sorriso e un cordiale grazie. Seguendo le indicazioni, arrivarono alla reception. Fu lì che incontrarono Beth, la sua grifondoro preferita. L’abbracciò cordialmente in segno di saluto.
    «Allora come va?» domandò felice. «Oh, scusami un attimo…» fu costretto ad interromperla, per spostare la sua attenzione sulla signorina della reception.
    Gli diede le ultime indicazioni, insieme ad un cellulare. ”Addirittura distribuiscono cellulari gratis a tutti. Oh i soldi…” pensò sarcastico.
    Preso tutto, tornò a rivolgere la sua attenzione alla compagna. «Allora dicevi? Ah, perfetto. Tutti in tenda insieme, forza, andiamo alla tre!» gridò incamminandosi con i compagni.
    Durante il tragitto, verso quella che sarebbe stata la loro nuova residenza per ben quindici giorni, non poté far altro che ammirare quella splendida oasi paradisiaca. Soltanto respirando quell’aria, si poteva capire quanto fosse pulita. L’aria fresca che avvolgeva il luogo era piacevole e rilassante. La vegetazione ere ricca, facendo di quel posto un vero paradiso. Un’altra cosa che notò, fu Naomi Harvey, la grifondoro più grande di lui di due anni e dalla bellezza incantevole. L’aveva più o meno conosciuta al ballo di fine anno e non gli sarebbe dispiaciuto conoscerla meglio durante quel soggiorno estivo.
    «Eccoci qui! La numero 3!» disse fermandosi davanti alla loro tenda. «Forza, vediamo com’è dentro.»



    Edited by °Albus Severus° - 7/7/2015, 20:34
     
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